-Come domenica scorsa, anche oggi abbiamo ascoltato un dialogo tra Gesù e i suoi avversari. I farisei, che interrogano Gesù per metterlo alla prova, erano molto preoccupati di adempiere la Legge: prima avevano chiesto se sia lecito pagare il tributo a Cesare, ora chiedono quale sia nella Legge il grande comandamento.
-Il tema della Legge è fondamentale, perché è il dono di Dio per eccellenza, dato al popolo per mezzo di Mosè e segno dell’alleanza tra Dio e Israele. I farisei mettono alla prova Gesù su ciò che c’è di più prezioso per Israele.
-Evidentemente il problema non è la Legge, ma il modo con cui si sta di fronte alla Legge. Gli uomini, segnati dal peccato, molto facilmente manipolano la Legge, la commentano, la interpretano, ma non la vivono nella sua verità. Il peggiore peccato contro la Legge di Dio si chiama “legalismo”: si tratta di quel modo di leggere e interpretare la Legge di Dio che ci porta al formalismo, a mantenere una apparenza di rispetto della Legge nascondendo una disobbedienza di fatto; a considerare la lettera della Legge senza considerarne lo spirito. Questo avviene anche nei confronti della legge civile, quando la burocrazia o i cavilli linguistici permettono di rispettarla formalmente ma di aggirarla di fatto. Così la legge da strumento di giustizia diventa strumento di ingiustizia.
-Chi interroga Gesù è un legalista, e vuole coinvolgere Gesù in un dibattito molto appassionante per i farisei, quello sulle gerarchie di importanza tra i tanti comandi e divieti presenti nella Torah. Se domenica scorsa la si buttava in politica, ora la si butta in questioni di diritto canonico.
-Ancora una volta, Gesù non si lascia prendere al laccio: sa bene che la Legge va vissuta, non commentata; va compiuta, non sezionata e selezionata. Quindi non fa altro che ripetere quello che era considerato il cuore di tutta la Legge di Dio, il cosiddetto “Shemà Israel”, “Ascolta Israele”.
-La legge è questione di amore, non di regole. La regola va rispettata, ma per rispettarla conta non soltanto il piano esteriore, ma quello interiore. Io posso essere una persona molto religiosa, che va a Messa tutti i giorni, che dice tante preghiere, che fa digiuno e astinenza, che obbedisce fedelmente a tutti i precetti della Chiesa e rispetta i comandamenti; ma finché non amo Dio con tutto il mio essere, finché ci sono spazi del mio cuore in cui lui non è il Signore, finché disperdo le mie energie interiori in fantasie falsamente spirituali e in desideri che mi allontanano da lui, finché non oriento a lui la mia intelligenza, io devo ancora camminare. La Legge non è una realtà statica, ma dinamica: se non mi mette in cammino di continua conversione, io non sono uno che la vive, ma che la giudica. Io vivo la Legge se mi ricordo chi me l’ha data. Se una persona che mi vuole bene mi regala un oggetto, anche di poco valore, ma che esprime il suo amore per me, quell’oggetto per me sarà preziosissimo, perché mi rimanda sempre a colui che me l’ha donato; per un altro quell’oggetto non avrà alcun valore.
-Perché non osserviamo i comandamenti? Perché gli diamo poco peso? Perché non ci rimandano a colui che ci ama; oppure perché non abbiamo mai conosciuto il suo amore, non riconosciamo ciò che Dio ha fatto per noi.
-Ci sono invece tanti che osservano scrupolosamente i comandamenti, ma non per amore, bensì per paura. Neppure loro hanno mai conosciuto l’amore di Dio, ma gli è stato fatto conoscere un Dio da temere, un idolo che si nutre dei nostri sacrifici.
-Gesù, non richiesto, aggiunge il secondo comandamento, dicendo che è «simile al primo»: quello di amare il prossimo come se stessi. Questa aggiunta ricorda quella che Gesù dice in risposta alla domanda sul tributo a Cesare: non si limita a dire di rendere a Cesare quello che è di Cesare, ma aggiunge «e a Dio quello che è di Dio». Non si tratta di un semplice corollario o di una frase ad effetto, ma della sostanza profonda, che ci aiuta a metterci sul giusto piano. Gesù sa bene come l’amore verso Dio possa essere inteso in modo molto spiritualistico e quindi astratto; conosce la nostra durezza di cuore, che ci porta a separare la religione dalla vita e a vivere due vite parallele, quella in chiesa e quella fuori. San Giovanni scrive che «chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede». Come posso essere certo di amare Dio? Se amo il prossimo come me stesso. E questo si declina in stili di vita molto precisi, come ci suggerisce la prima lettura. Non posso selezionare le persone e scegliere chi sia il prossimo da amare, ma devo farmi prossimo di tutti. È facile amare chi mi ama, chi può darmi il contraccambio, chi fa parte della mia cerchia, chi mi ispira fiducia, chi rimane a distanza di sicurezza; ma se non amo lo straniero, i poveri che mi chiedono aiuto; se faccio la cresta su quello che presto ai bisognosi; se non cerco la giustizia per chi è senza voce e senza strumenti per difendersi da una legge che schiaccia i poveri anziché aiutarli… io non posso pensare di amare Dio perché poi me ne vado a pregare in chiesa per pulirmi la coscienza.
-Gesù contrappone Dio a Cesare, ma mette sullo stesso piano Dio e il prossimo. A volte invece noi facciamo a rovescio, assumendo le logiche di Cesare, cioè del mondo e del potere, e scartando i fratelli, magari riparandoci dietro a certe letture distorte della Legge di Dio.
-Annunciamo al mondo la Pasqua di Gesù risorto con il nostro amore concreto, e questo sarà molto più efficace di tante belle parole.