-Abbiamo appena ascoltato una delle parabole più urtanti del Vangelo, di quelle che ci fanno capire perché Gesù è finito in croce. Probabilmente oggi farebbe la stessa fine per mano di qualche sindacato dei lavoratori! È vero quello che dice Dio nella prima lettura: «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie». Il modo di pensare di Dio è lontanissimo dal nostro!
-Già domenica scorsa abbiamo fatto i conti con questo Dio “diversamente giusto”, che perdona sempre e senza condizioni e che ci chiede di fare altrettanto, insegnandoci che non c’è vera giustizia senza perdono. Oggi Gesù rincara la dose riguardo alla giustizia, raccontandoci di questo padrone di casa che non cessa di uscire, ad ogni ora del giorno, a cercare operai per la sua vigna, e che alla sera dà lo stesso compenso agli operai della prima ora e a quelli dell’ultima. Il suo ragionamento in realtà non fa una grinza: quello che ha pattuito coi primi gliel’ha dato. Agli altri ha promesso semplicemente: «quello che è giusto ve lo darò». E per lui “quello che è giusto” è dare il massimo a ciascuno, indipendentemente da quanto ha meritato col proprio lavoro.
-È chiaro l’intento provocatorio di Gesù, che non vuole affatto mettere in discussione i diritti dei lavoratori e la proporzionalità della retribuzione salariale. Gesù ci sta presentando la natura profonda di Dio e quindi quale sia il nostro rapporto con lui. Troppe volte noi consideriamo Dio come un padrone da accontentare, che ci misura secondo i nostri meriti, secondo criteri strettamente retributivi. Questo ci porta a vivere un moralismo religioso che nulla ha a che fare con il Vangelo. La buona notizia che Gesù ci ha portato è che Dio è «misericordioso e pietoso (…) lento all’ira e grande nell’amore»: quindi quello che riceviamo da lui è pura grazia, non è frutto dei nostri meriti. Chi può meritare qualcosa da Dio? Chi può sentirsi in credito con lui? Noi spesso diamo per scontati i doni di Dio e facciamo fatica a pensare che tutto è grazia. Ci arrabbiamo con Dio perché ci appare ingiusto. Quante volte vediamo che a chi fa il bene capita il male e viceversa? È naturale che questo ci indigni.
-Oggi il Vangelo smaschera il nostro rapporto distorto con il Signore, che percepiamo non come un Padre da amare, ma come un padrone a cui obbedire per essere premiati e non essere puniti, che ci misura con la calcolatrice come noi facciamo con gli altri.
-Gesù ci rivela che il nostro vero premio non sono i doni di Dio, ma è Dio stesso, il poter stare con lui, godendo della sua presenza e del suo amore. Come dice san Paolo: «per me il vivere è Cristo (…) ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo». L’apostolo non si aspetta attestati di riconoscimento per tutto quello che ha fatto a servizio di Dio: il suo premio l’ha già avuto e nessuno può toglierglielo, né la vita né la morte. Il premio è lavorare nella vigna, non è il salario finale. Chi ha lavorato fin dal mattino nella vigna un vantaggio ce l’ha: ha conosciuto prima l’amore di Dio e ha potuto stare con lui per più tempo. Paolo questo l’ha imparato incontrando Gesù: prima infatti la sua vita era tutta basata sui propri meriti, sulla propria giustizia; ma quando ha incontrato Cristo tutto questo ha perso di valore. L’unico rimpianto che può avere è quello di essere rimasto tanto tempo lontano da Cristo, perseguitandolo.
-Chiediamoci oggi: qual è il mio rapporto con Dio? È basato sull’amore o sulla paura? Cerco lui o i suoi doni? Mi sento in credito con lui o vivo tutto come una grazia immeritata? Provo gioia per chi arriva nella vigna all’ultima ora, o sono divorato dall’invidia e dalla mormorazione?
-Che modello seguiamo come Chiesa? Quello del padrone di casa, che esce più volte al giorno sulla piazza a cercare le persone che attendono una chiamata che gli doni una speranza nuova? O quello dei servi della prima ora che vivono tutto nel calcolo e non vogliono condividere con altri i propri spazi? Dobbiamo riconoscere che è più comodo e gratificante chiudere le porte della vigna, mantenendo dei confini e delle relazioni sicure; ma saremo davvero Chiesa ad immagine di Dio solo se sapremo rischiare, uscendo ed esponendoci sulla piazza del mondo senza stancarci, chiamando le persone senza giudicarle, avendo a cuore non tanto il bilancio attivo delle nostre attività pastorali, come farebbe un’azienda, ma piuttosto che tutti, buoni e cattivi, possano prima o poi incontrare come noi Gesù Cristo ed essere ricolmati dell’amore gratuito di Dio.