Avviene in ogni Eucarestia. Il sacerdote mostra l’ostia consacrata e dice: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo». Oggi il Vangelo mette questa frase in bocca a Giovanni Battista. A noi può sembrare complessa e criptica, ma per un buon ebreo aveva un significato chiaro e importante. L’agnello, infatti, era stato sacrificato al tempo di Mosè, all’uscita del popolo dalla schiavitù d’Egitto. Inoltre richiamava l’esperienza di Abramo nel sacrificio di Isacco e a un «agnello condotto al macello» veniva paragonato il Servo del Signore presentato da Isaia. Giovanni, con questa intuizione, fu profeta. Anche Gesù avrebbe preso su di sé il peccato del mondo, presentando la stessa l’idea con altri simboli: il pane e il vino, il corpo e il sangue offerti a Dio per far vincere il male dell’ingiusta condanna a morte con il bene del perdono, dell’amore, della fede.
L’attuale traduzione, che ascoltiamo oggi nella lettura, si esprime tuttavia al singolare: il peccato del mondo. È probabilmente la superbia: l’uomo che si ritiene dio, che pretende di conoscere, gestire e imporre la verità, che calpesta il prossimo con la scusa di una presunta superiorità legata alla propria condizione o alla propria storia. Questa è l’origine di ogni peccato, contro Dio e contro l’uomo. Questa è la causa della fine terrena di Gesù, che però fu più forte del male. La sua vittoria non ci esenta dalle responsabilità personali, ma apre la strada alla vita vera. Davvero il male non ha più potere assoluto, perché battuto, una volta e per sempre.
Vorrei conoscerti, Gesù.
Vorrei incontrarti sulle strade del mio mondo,
incrociare il tuo sguardo intenso,
vedere i tuoi gesti straordinari,
ascoltare le tue parole ispirate.
Vorrei vederti all’opera nella vita quotidiana,
sentire il tuo parere sulle questioni più dibattute,
raccontarti i miei problemi e i miei dubbi,
magari dare due calci a un pallone
o prendere un caffè con te… Offro io, Gesù!
Vorrei chiederti come hai fatto a resistere al male,
a sopportare quelle umiliazioni e persecuzioni,
a pazientare davanti ai peccati e alle bestemmie
dei tuoi seguaci nella storia.
Vorrei sapere com’è la vita al di là di ciò che vedo,
se ci si diverte e non ci si annoia,
se i santi sono proprio come ci hanno raccontato,
e quanto è bello vedere Dio e sentirlo Padre.
Ma so che dovrò aspettare,
fidarmi e affidarmi a ciò che so di te dai Vangeli,
e forse ritrovare le tue mani, i tuoi occhi, i tuoi sogni
in quelli di chi oggi continua a testimoniarti,
perché ti ha incontrato o ha sentito parlare di te,
ed è rimasto così affascinato
da scommettere la propria storia sulla tua.
Tu sei, oggi, mille volti che hanno imparato ad amare.
Hanno seguito le tue orme e vinto il male.
Ora sono una piccola grande parte di te.
Per sempre.
«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 5,1-2).Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie. Dopo tre anni di pandemia, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità. Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23).