XXX domenica T.O. anno C 23/10/2022
-Da qualche domenica la Parola del Vangelo ci pone davanti al mistero della preghiera, e questo ci fa bene, perché ne abbiamo bisogno. Forse le nostre difficoltà maggiori rispetto alla preghiera è il fatto che la consideriamo una pratica religiosa, un’azione che parte da noi, una strategia che noi mettiamo in campo per ottenere qualcosa da Dio, senza la quale Dio non ci ascolterebbe. Invece la preghiera è innanzitutto un’opera che Dio compie in noi, come un mare nel quale ci immergiamo.
-Quando andiamo al mare, possiamo scegliere diversi modi di stare, a seconda del nostro rapporto con l’acqua. C’è chi non entra proprio perché si sente sicuro solo sulla terra ferma: questo rappresenta coloro che semplicemente non pregano, non entrano mai in relazione con Dio, ma si radicano nelle sicurezze di questo mondo. C’è chi immerge i piedi sulla riva, pensando che se sono venuto al mare, bisogna almeno bagnarsi: sono coloro che vivono una vaga religiosità e dicono le preghiere, perché “bisogna farlo”, è dovere di un cristiano. Entro in contatto con Dio o almeno con quella che ritengo una presenza soprannaturale, ma rimanendo in superficie e tenendo bene i piedi ancorati a terra. Cercano Dio in momenti di necessità, poi tornano a fare la propria vita di prima. Ci sono quelli che si spingono un po’ al largo, dotati di mezzi che li aiutino a rimanere a galla, come un salvagente o una tavoletta: sono coloro che hanno una vita di preghiera più profonda e formata, ma che temono di lasciar fare a Dio, non si fidano del tutto: sanno chiedere e ringraziare, ma al centro della preghiera ci sono ancora loro. Infine ci sono coloro che prendono il largo lasciandosi immergere e trasportare dalle acque, perché hanno imparato a starci dentro e a lasciarsi sostenere dall’acqua. Non hanno la sicurezza assoluta di non affogare, ma si assumono il rischio. Sono coloro che hanno imparato che la preghiera è innanzitutto opera di Dio, immergersi in lui, fidarsi senza misura, entrare in un mistero che li supera infinitamente. Non si sentono superiori o alla pari rispetto a Dio, come chi prende il largo nel mare riconosce la propria piccolezza rispetto all’abisso che sta sotto di lui.
-Chi sta davanti a Dio in questo modo? Prima di tutto i poveri, coloro che non hanno sicurezze in questo mondo e quindi con più facilità sanno affidarsi a Dio senza misura. Per questo dice il Siracide che «la preghiera del povero attraversa le nubi», si spinge dentro il mistero stesso di Dio.
-Poi ci sono i peccatori, come il pubblicano della parabola di Gesù: quelli che hanno la consapevolezza di non avere nessun merito davanti a Dio, sanno di essere lontani da lui. Questi non possono stare davanti a Dio se non completamente disarmati, privi di ogni sicurezza o presunzione.
-Al contrario, chi vive in una situazione di sicurezza economica o sociale, chi sta bene, più difficilmente riuscirà ad abbandonarsi totalmente a Dio. Ancora meno chi vive una vita giusta, chi è più introdotto nelle cose della fede, come il fariseo della parabola: troppo giusto per sentire il bisogno di Dio. Piuttosto, è lui ad esibire davanti a Dio tutti i propri titoli di merito, come un vanitoso davanti ad uno specchio.
-Gesù con questa parabola non ci vuole parlare della preghiera, ma ci mostra come il nostro modo di pregare riflette il nostro modo di stare davanti a Dio e agli altri. Chi ha l’intima presunzione di essere giusto, non sente nessun bisogno di Dio, se non come un prolungamento di se stesso. Dio non può giustificarlo, perché lui è già forte della sua presunta giustizia. Al contrario, chi riconosce la propria ingiustizia, lascia lo spazio a Dio per esercitare la sua giustizia e per giustificarlo.
-È importante che questa parabola ci provochi personalmente, in particolare chi di noi vive una vita di fede, è introdotto in parrocchia, si sente cristiano. Come tante volte ci diciamo, il grande equivoco che rischiamo di vivere di fronte al Vangelo è quello di ridurre il messaggio di Gesù a qualcosa di moralistico. La conseguenza è l’intima presunzione di essere giusti, perché il moralismo ci porta a sentirci giusti e a giudicare gli altri.
-La prova più evidente di tutto questo è il nostro rapporto con il sacramento della Penitenza. Quasi nessuno di coloro che frequentano abitualmente la Chiesa e che vanno ogni domenica a Messa ormai si confessa. C’è una presunzione di fondo che ci porta sempre a rimandare questo sacramento, perché non ne sentiamo il bisogno, ci sentiamo a posto, non sentiamo l’urgenza dell’incontro con la misericordia di Dio. E chi si confessa spesso non sa che cosa dire, lo fa per dovere, si giustifica, elenca i propri meriti anziché i propri peccati, oppure parla dei peccati di altri.
-Pensiamo che essere cristiani coincida con l’essere giusti, con l’essere buoni, con l’osservare delle leggi. Ma questo con Cristo non c’entra nulla.
-San Paolo, che era stato un fariseo osservante della Legge e che presumeva della propria giustizia, incontrando Cristo comprese che non aveva capito niente: era Cristo che lo giustificava, che lo aveva scelto senza alcun merito. Per questo, al termine della propria vita scrive che attende solo la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, gli consegnerà in quel giorno. Ha rinunciato alla propria giustizia, l’ha considerata come spazzatura, perché per lui ormai conta solo Gesù Cristo.
-Essere cristiani significa che nulla conta se non Gesù Cristo, che ci giudica e ci giustifica. Siamo dei peccatori perdonati: questo ci rende cristiani. “Cristiano” non è un titolo di merito, ma un dono gratuito. Per questo non possiamo vivere senza sperimentare continuamente la misericordia di Dio e naufragare dolcemente in questo mare.