Profeti di Dio
Forse è il destino di ogni profeta: essere contestato, smi-nuito, o, semplicemente, ignorato. È ciò che avvenne a Geremia: perseguitato, incarcerato, punito come tradito-re, abbandonato persino dalla propria famiglia. Anche Ge-sù fu svalutato e cacciato da una comunità incredula, troppo abituata a ritenerlo il «figlio di Giuseppe». Nazaret perse la propria occasione. Ma noi siamo in grado di rico-noscere i messaggeri di Dio tra le pieghe del quotidiano? Sono gli allineati alle parole e alle virtù di Gesù, comprese quelle scomode o radicali; sono coloro che operano con-cretamente per salvare i poveri e i prigionieri; sono quelli che non hanno timore di vivere il gratuito in un mondo che persegue il proprio interesse. Più numerosi di quanto immaginiamo, svolgono il proprio compito facendo cresce-re l’angolo di mondo che gli è stato affidato; sono corretti, leali ed onesti; non sgomitano per mettersi in mostra, ma col loro silenzio possono farci misurare la nostra distanza da Lui. Hanno già messo in conto fraintendimenti, sberlef-fi e opposizioni. Ma sanno di non poter perdere, perché, come scrive Geremia, «Dio è con loro».
Dovremmo ringraziare questi profeti, perché continuano a camminare anche quando noi ci fermiamo; sono colonne che «fortificano la nostra città» e ci ricordano che ciò che resterà per sempre è la carità: rispettosa, benevola, pa-ziente e felice per il bene di tutti.
CREDO IN DIO
Credo in Dio
e credo nell’uomo quale immagine di Dio.
Credo negli uomini,
nel loro pensiero,
nella loro sterminata fatica
che li fa essere quello che sono.
Credo nella vita
come gioia e come durata:
non prestito effimero dominato dalla morte,
ma dono definitivo.
Credo nella vita
come possibilità illimitata
di elevazione e di sublimazione.
Credo nella gioia:
la gioia di ogni stagione, di ogni tappa, di ogni aurora,
di ogni tramonto, di ogni volto, di ogni raggio di luce
che parta dall’intelligenza, dai sensi, dal cuore.
Credo nella possibilità
di una grande famiglia umana quale Cristo la volle:
scambio di tutti i beni
dello spirito e delle mani, nella pace.
Credo in me stesso,
nelle capacità che Dio mi ha conferito,
perché possa sperimentare la più grande fra le gioie
che è quella del donare e del donarsi.
(mons. Giulio Bevilacqua)
Ricordo di don Fabio
Alla fine dei guai, diceva don Fabio, devi decidere dove attaccare la vita. C’è chi si attacca a una persona, chi ad altro: “Se non sai cosa fare, puoi attaccarti al tram. Beh, io mi attacco a Gesù Cristo”. Fermo nel dire, morbido nell’accogliere. La sovrabbondanza della sua gratuita accoglienza spiazzava, conquistava. Attaccato a Cristo, “povero Cristo”, lo è stato dandosi come prete, convinto e contento, nato per esserlo. A Bondanello, Castelfranco, Riola, Nostra Signora della Fiducia. Non senza momenti di amarezza, non privo di domande sul senso. Ma “se il Signore ti ha fatto albero di mele, vuoi che ti chieda delle arance…”, scherzava, fino a un certo punto, sempre fino a un certo punto, con una delle sue mille immagini. Erano le parabole di don Fabio per spiegare la Fede, portare la Scrittura alla terra. La cucinava, che grande cuoco che era, mescolava gli ingredienti della Parola con le sue parole, con le scene che inventava e che spesso erano più verosimili di quelle vere. Perché ci metteva del suo, come ogni grande chef. Le sue omelie entravano nelle case, andavano all’osso delle questioni. Anche se, forse, sentirsi definire come uno che andava all’osso lo farebbe sorridere. “Sì, certo, tutto è possibile, anche che io divento magro…”, sbottava quando qualcuno la sparava troppo grossa. Era luminosa la sua ironia, mai cattiva: la usava per prendere in giro se stesso, ma se la rivolgeva verso gli altri era per evidenziare qualcosa di bello, per rigirare una prospettiva, mostrare il nascosto. Chi lo sentiva per la prima volta e non lo conosceva diceva che era un prete da cabaret. Se glielo si riferiva, rispondeva con una battuta, su altri tipi di cabaret. Aveva una battuta per tutto, per tutti. Era anche, un po’, la sua difesa. Non amava stare al centro, ma era un punto di riferimento. Una volta, a un incontro con dei giovani, si presentò con i burattini, per raccontare le mille posture, gli abiti che si indossano per darsi un tono. Davanti a lui queste maschere di solito sparivano. Chi ha avuto la possibilità di avvicinarsi lo ha sperimentato. “Hai un problema? Bene, intanto lo sappiamo. Intanto non sono due problemi, o tre. Avanti pure”. Don Fabio era un padre spirituale. E come padre ha avuto dei figli spirituali, che in questi giorni si sono quasi stupiti nel sentirsi abbracciati dalla vicinanza di amici, come se fosse mancato un familiare. Don Fabio spingeva a non accontentarsi. Spingeva all’amicizia, metteva insieme persone diverse. Viveva per le amicizie, ne era geloso, “come il Dio dell’Esodo”. Gli piacevano però le amicizie per qualcosa, un po’ rivoluzionarie, come quelle con i suoi amici preti, i suoi compagni di classe del seminario. Amicizie con lo sguardo al futuro, senza sprecare la vita in sciocchezze: “Dite che siete amici. E allora perché quando uscite insieme parlate degli altri e non di voi, di quello che volete essere?”, quasi si arrabbiava. Cercava la condivisione. E per spiegare la condivisione cristiana, ne raccontava un’altra delle sue. “Ero agli esercizi spirituali e c’era questo giovane pretino, nel silenzio assoluto gli brontolava sempre lo stomaco ,….Allora ho pregato: Signore, fallo smettere, poverino. E indovina cos’è successo? Ha iniziato a brontolare il mio. Ma guarda… è così che fa il Signore!”.
Don Fabio se n’è andato appena finito il tempo di Natale. “Gesù è venuto nella pienezza del tempo”, gli piaceva sottolineare, citando San Paolo e giocando sui modi per riempire il tempo, senza buttarlo, ma anche ragionando sul compimento della vita. I suoi tanti figli, alla fine dei guai, sono grati per come l’ha compiuta.
(Tommaso Romanin)